L'assedio di Malta
(18 maggio - 13 settembre 1565)

Piero Pastoretto (disegni di Roberto Vela)

Panoplia N° 13, gennaio-marzo 1993


TTra il giugno del 1940 e l'agosto del 1942 i maltesi resistettero ad un ostinato assedio delle forze dell'Asse, che una compiacente storiografia britannica ha dipinto con i toni della tragedia e dell'eroismo: triste sorte di un piccolo popolo, che per secoli ha combattuto battaglie non volute di guerre non sue, pagando con il sangue dei propri morti ed i lutti dei sopravvissuti il prezzo degli allori altrui.

Ma tutta la stoica sopportazione di cui i maltesi dettero pur prova nel corso di due anni di bombardamenti e privazioni impallidisce e scompare al confronto dei quattro mesi di gloriosa ed autentica epopea in cui Malta visse l'invasione dell'armata turca, la difesa disperata dei suoi Cavalieri e la liberazione dei soccorsi cristiani. Quella battaglia, tra la primavera e la tarda estate del 1565, segna uno degli episodi risolutivi del millenario scontro fra la cristianità e l'Islam, ed un fatto d'arme degno forse più della penna di un poeta che di uno storico.

I cavalieri di Malta

L'Ordine dei Cavalieri di Malta - ufficialmente Sacro Militare Ordine Gerosolimitano di Malta, detto anche degli Ospitalieri o dei Giovanniti, è uno dei più antichi e gloriosi ordini religiosi e militari del cristianesimo. Le sue origini tuttavia sono assai umili, e risalgono alla pietosa iniziativa di un gruppo di amalfitani che, nell'XI secolo, ottennero il permesso dalle autorità islamiche di fondare un ospizio a Gerusalemme per l'assistenza dei pellegrini. Dopo la conquista della città da parte dei crociati nel 1099, la pia istituzione fu retta dai benedettini ed il loro ospedale fu intitolato a Giovanni Battista, ma la necessità di difendere le posizioni cristiane in Terrasanta, e di tutelare l'integrità fisica delle migliaia di devoti che vi affluivano, trasformarono ben presto gli scopi della Congregazione. Sotto il regno di Goffredo, nel 1149, fu nominato il primo rettore dell'Ordine degli Ospitalieri, Gérard de Martignus, che veniva dalla Provenza, ed i nuovi Cavalieri affiancarono così la loro opera a quella dei Templari, fondati pochi anni prima, nel 1118, da Ugo di Payns al tempo di re Baldovino. Il secondo Rettore degli Ospitalieri, Raymond de Puy redasse la regola militare sulla quale si innestarono tutti i successivi statuti ed ordinanze dell'Ordine, che fu riconosciuta ufficialmente nel 1113 dal Pontefice Pasquale IL Caduta Gerusalemme nel 1187 i Cavalieri dovettero trasferire la loro sede prima a Margat, poi a San Giovanni d'Acri e, nel 1291, a Cipro, dove la necessità li spinse a costruire una grande flotta e ad esercitare un forte potere marittimo di controllo contro le squadre barbaresche. Por non dimenticando le antiche origini assistenziali e caritatevoli dell'Ordine e continuando a costruire ospedali ed ospizi, nonché a formare personale medico-infermieristico, i Cavalieri Gerosolimitani cominciarono ad acquisire in questi anni la fisionomia definitiva della loro missione, trasformando il binomio ospitalieri-guerrieri in quello di marinai-ospitalieri. I "fratelli", che pronunciavano tutti e tre i voti monastici e provenivano dalla medio alta aristocrazia d'Europa, si organizzarono ben presto in otto Lingue destinate a porgere assistenza ai loro connazionali. Le Lingue Alvernia, Provenza, Francia, Aragona, Castiglia, Germania, Italia ed Inghilterra - obbedivano ciascuna ad un capo - Pilier - il quale a sua volta ricopriva un incarico preciso nell'amministrazione e nei compiti interni dell'Ordine. Il Pilier della Lingua Inglese o Turcopilier, era il comandante della cavalleria (1); il Pilier della Lingua d'Italia era l'Ammiraglio della flotta; quello della Lingua di Provenza - il Gran Precettore - era il tesoriere; quello dell'Alvernia amministrava il braccio militare dell'Ordine; il Pilier di Germania o Alemagna, detto Gran Balì, curava le fortificazioni; il Capo della Lingua di Francia - l'Ospedaliere - amministrava l'ospedale o Sacra Infermeria. Il Gran Maestro veniva eletto a vita in un conclave a scrutinio segreto, ed era assistito dai membri anziani dell'Ordine.

Nel 1311 i Cavalieri dovettero ancora trasferire la loro sede e si stabilirono nell'isola di Rodi, che fortificarono e tennero per più di due secoli sino al 1523, vera spina nel fianco del colossale impero Turco. A Rodi costruirono un ospedale, un "albergo" per ogni Lingua, attrezzarono il porto, eressero mura e castelli, e costituirono in pieno Egeo una potente flotta in grado di farsi temere dai musulmani. I Turchi investirono la piazzaforte già nel 1480, Maltama furono respinti dai Cavalieri con gravi perdite. La situazione precipitò tuttavia quando sul trono della Sublime Porta salì il più coraggioso e capace sultano che l'impero turco abbia mai conosciuto: Suliman II, detto Il Magnifico (2). Questo valentissimo guerriero, non solo temuto ma anche rispettato ed ammirato dagli stessi cristiani, non concepì un piano strategico di portata continentale per conquistare l'Europa: favorito da una serie di circostanze storiche eccezionali come la guerra tra Francia e Spagna e la Riforma luterana che aveva indebolito e spaccato il già fragile Impero, iniziò una gigantesca manovra a tenaglia che portò le armate turche sul Danubio ad insidiare gli stessi domini austriaci degli Asburgo (3) mentre con la flotta e l'esercito smantellava le fortezze veneziane in Oriente per conquistare il dominio sul Mediterraneo. Salito al trono ventiseienne nel 1520, nel 1526 sconfiggeva a Mohacs il re d'Ungheria Luigi II Jagellone che cadeva sul campo; successivamente si alleava addirittura con Francesco I di Francia, ma intanto, nel 1523, era già riuscito a cacciare i Cavalieri da Rodi dopo un assedio di ben sei mesi e con l'impiego di 700 navi e 200.000 uomini (4).

Nuovamente esule, l'Ordine degli Ospitalieri fu costretto a mendicare dalla Chiesa e dall'Impero una nuova sede. Si stabilì prima a Viterbo, poi a Nizza, fino a quando, nel 1530 Carlo V concesse al Gran Maestro Philippe Villiers de l'Isle Adam le isole maltesi, con l'obbligo di difendere anche la città di Tripoli.

La Croce di Malta

L'attuale stemma araldica dei Cavalieri, nonché dell'isola di Malta, è la croce ad otto punte o biforcata. La sua origine non è altro che il simbolo della città di Amalfi (croce biforcata bianca in campo azzurro) in quanto il primo ospizio a Gerusalemme fu fondato dai cittadini di quella Repubblica. Con il tempo però la croce maltese acquistò significati mistico-simbolici che diedero allo stemma un senso del tutto nuovo. Così il colore bianco divenne il segno della purezza, che a sua volta è la sintesi dei tre voti di povertà, castità ed obbedienza, che i Cavalieri pronunciavano. I quattro bracci rappresentano invece le quattro virtù cardinali della fortezza, giustizia, prudenza e temperanza. Le otto punte simboleggiano infine sia le otto Lingue, sia le otto beatitudini del Vangelo di San Matteo (5).

All'epoca dell'approdo dei Cavalieri a Malta il loro stemma era tuttavia ben diverso da quello attuale. Nel ritratto di un cavaliere eseguito dal Tiziano si osserva una croce latina biforcata che assomiglia solo lontanamente alla croce attuale, mentre negli affreschi del Palazzo dei Gran Maestri i cavalieri portano come insegna una semplice croce latina bianca in campo rosso.

I prodromi della battaglia

Nel 1564 Suliman II, "Sultano degli Ottomani, Vicario di Allah sulla Terra, Signore dei signori di questo mondo, Re dei credenti e dei miscredenti, Ombra dell'Onnipotente dispensatrice di quiete sulla Terra", era ormai un vecchio di settant'anni che non aveva mai conosciuto sconfitte nel suo lungo regno di guerre interminabili. Quarantuno anni prima, espugnando Rodi, aveva cacciato i cristiani dal Dodecanneso e dall'Egeo. Suo adesso era anche lo Jonio e poteva sembrare che più nulla potesse frapporsi tra lui e la Sicilia, e poi le Baleari, e infine le coste italiane, francesi e spagnole. Non era così, ed il vecchio sultano se ne rendeva ben conto. Da quando Malta era stata ceduta agli Ospitalieri, le loro squadre navali intercettavano tutte le galee barbaresche che tentavano di forzare il Canale di Sicilia, e la piccola isola era diventata il nuovo bastione del Mediterraneo occidentale. Suliman si era pentito ormai troppe volte di aver trattato cavallerescamente i Cavalieri superstiti dell'assedio di Rodi, e di non averli sterminati quando ne ebbe la opportunità: ormai al tramonto della sua vita di conquistatore voleva lasciare alla storia un'ultima gloriosa impresa, e fu così che nell'ottobre del 1564 decise di spazzare via dai mari e da Malta l'insidiosa presenza dei Cavalieri. A dir la verità, quando trent'anni prima vi approdarono, l'isola era apparsa agli Ospitalieri poco più che un miserabile scoglio: il suolo era del tutto arido e tanto brullo che quasi non vi crescevano alberi, al punto che d'inverno per il riscaldamento si era costretti a bruciare sterco di bue e cardi selvatici. Vi era perà una caratteristica dell 'isola che impressionò favorevolmente il Gran Maestro Philippe Villiers, e cioè i suoi magnifici porti naturali che si prestavano a fare, di quell'inospitale roccia in mezzo al Mediterraneo, la base di una flotta invincibile. Per questa ragione i Cavalieri elessero a loro sede non la capitale Mdina che sorgeva al centro di Malta, ma il villaggio di pescatori di Birgù (oggi Vittoriosa), che si affacciava in quello che adesso si chiama Grand Harbor, dove fecero del Forte Sant'Angelo il loro quartier generale.

Nel 1557 fu eletto Gran Maestro dell'Ordine Jean Parisot de La Valette, discendente da un'antica e nobile famiglia provenzale. Era entrato nei Cavalieri a vent'anni ed aveva preso parte alla difesa di Rodi. Nel 1541, nel corso di uno scontro navale contro i corsari barbareschi, era stato ferito ed aveva perduto la sua galea, la San Giovanni Battista. Catturato, per un anno servì al remo come schiavo cristiano e riottenne la libertà in seguito ad uno scambio di prigionieri tra l'Ordine ed i corsari della Barberia. Approfittò di questo tempo per imparare perfettamente l'arabo ed il turco, che aggiunse alla conoscenza dell'italiano, dello spagnolo e del greco, che già possedeva. Quando nell'aprile del 1565 ricevette la notizia che la flotta ottomana era uscita dal Corno d'Oro per fare rotta su Malta, La Valette aveva settant'anni, esattamente quanti Suliman ed era un condottiero altrettanto energico e determinato. Ai suoi ordini erano circa 10.000 uomini, e cioè 600 Cavalieri, 4.000 maltesi e 5.000 fanti italiani e spagnoli. Con queste truppe doveva contrastare l'invasione di 180 navi e 40.000 turchi, tra i quali c'erano alcune migliaia di giannizzeri, le temute trupped'élite del Sultano, conosciute con il terribile nome di "Invincibili" (6).

JEAN PARISOT DE LA VALETTE.
Jean Parisot de la Valette nacque nel 1495 a Chateau de Labro in Guascogna da illustre famiglia provenzale. Tra i suoi antenati vantava i primi conti di Tolosa e cavalieri che avevano partecipato alle Crociate.
Di bell'aspetto, La Valette era anche devoto e particolarmente coraggioso. Parlava italiano, spagnolo, greco, arabo e turco. Entrò a far parte dell'Ordine all'età di vent'anni.
Nel 1522 La Valette prese parte all'assedio di Rodi. Nel 1541, nel corso di un combattimento contro il corsaro Abdul Rahman Kust Aly, fu ferito e perse la sua galea, la San Giovanni Battista.
Catturato, dovette per un anno subire la schiavitù sulle galee ottomane. Fu rilasciato in seguito ad uno scambio di prigionieri tra l'Ordine e i corsari della Barberia.
La Valette occupò vari posti di grande responsabilità, compreso quello di Governatore di Tripoli e Capitano Generale dello squadrone dell'Ordine.
Il 21 agosto 1557 La Valette veniva eletto Gran Maestro.
Il Grande Assedio del 1565 mise in luce le sue straordinarie qualità di soldato e comandante supremo. I1 28 marzo 1566 fondò la città di Valletta. Morì il 21 agosto del 1568 all'età di 73 anni. Il sarcofago con le sue spoglie è conservato nella cripta della concattedrale di San Giovanni.

La Valette aveva fatto apprestare tutte le difese dell'isola in un formidabile complesso di fortificazioni intorno al Grand Harbor. La baia è divisa in due parti dalla Penisola del Monte Sciberras. Assedio turcoA nord si estende il porto di Marsamuscetto, mentre a sud quello del Grand Harbor, caratterizzato da una serie di profonde insenature delimitate da sottili penisolette, simili a denti, su cui sorgevano gli abitati di Senglea e Birgù. Sull'estremità di quest'ultimo sorgeva il forte di Sant'Angelo che controllava l'accesso al porto. Il lato della penisola che dava verso la terraferma era protetto da un robusto terrapieno interrotto da due bastioni ed ulteriormente protetto da due semibastioni alle estremità. Oltre il terrapieno correva infine un profondo fossato scavato nella roccia viva da migliaia di schiavi turchi. Questo sistema di fortificazioni rendeva l'intera penisola di Birgù un'unica fortezza protetta da mare e da terra. La penisola di Senglea, che corre parallela alla prima, era difesa alla sua base dal massiccio forte di San Michele che era stato fatto costruire da La Valette non appena eletto Gran Maestro; una catena semisommersa sostenuta da pontoni di legno, tesa tra Forte Sant'Angelo e l'estremità di Senglea, impediva poi l'accesso nel braccio di mare che divide le due penisole. In ultimo, sulla punta estrema del monte Sciberras, sorgeva il piccolo ma munito forte di Sant'Elmo dalla caratterristica pianta a stella, che stava a guardia contemporaneamente dell'imboccatura di Marsamuscetto e del Grand Harbor. Il cuore della difesa era però concentrato intorno alla Chiesa conventuale dell'Ordine a Birgù e dentro il forte Sant'Angelo, dove erano immagazzinate la polvere, le munizioni e le riserve dei viveri e dell'acqua.

L'epopea di Sant'Elmo

La flotta turca apparve improvvisamente davanti al Grand Harbor all'alba di venerdì 18 maggio. Le galee avanzavano lentamente in "linea di fila" da nord-est, precedute dalle navi dei due comandanti della spedizione: Mustafà Pascià, generale responsabile delle truppe da sbarco ed il Bascià (Ammiraglio) Pialì.

Contrariamente alle attese del Gran Maestro la flotta non investì subito le fortificazioni della piazzaforte e non gettò le ancore nella baia di Marsamuscetto, ma continuò a navigare in direzione sud-est parallelamente alla costa, costringendo La Valette a distaccare un reparto di cavalieri per seguirla ed avvisare i contadini dell'interno di rifugiarsi con le loro cose dentro le mura di Mdina. In effetti, l'enigmatico comportamento delle galee ottomane era dovuto al dissidio che correva tra i due capi della spedizione: Mustafà avrebbe preferito investire l'isola da nord, occupare Mdina e stringere d'assedio dalla parte di terra Birgù e Senglea; Pialì riteneva che si dovesse invece forzare l'entrata di Marsamuscetto dopo aver messo a tacere il Forte Sant'Elmo per ancorarsi in quella baia riparata. Alla fine vinse la strategia dell'ammiraglio ed all'alba del giorno successivo i turchi, dopo aver accostato improvvisamente, cominciarono a sbarcare armi ed armati nella baia di Marsascirocco. A mezzogiorno del 19 maggio un primo contingente di 3.000 ottomani si dirigeva già verso il Grand Harbor, appena infastidito dalle sanguinose scaramucce di alcuni Cavalieri, a Santa Caterina.

Il piano era molto semplice: dopo un attacco a Birgù per saggiarne le difese, il corpo di spedizione doveva investire Sant'Elmo dal monte Sciberras e farlo cadere, nella supposizione vecchia come la guerra che ogni piazzaforte marittima va presa con un attacco terrestre. 1121 maggio le truppe di Mustafà attaccarono il terrapieno ed i bastioni che difendevano Birgù. Era tale l'ardore dei cristiani che un gruppo di Cavalieri dell'Ordine si precipitò fuori delle difese per correre incontro ai turchi, e La Valette dovette far uscire suo malgrado altri reparti per sostenerli nell'azione. Dopo cinque ore la mischia si concluse con la ritirata dei Gerosolimitani, che avevano avuto 21 morti contro 100 nemici. Gli ottomani poterono sperimentare quel giorno quale fosse la determinazione dei combattenti contro i quali si dovevano misurare, ma il Gran Maestro sapeva bene che l'attacco a Birgù era stato solamente una scaramuccia, od al massimo un diversivo. Per questa ragione approfittò della notte per traghettare a Sant'Elmo 100 Cavalieri e 400 fanti al fine di rinforzare la guarnigione. La mossa non fu affatto imprudente perché, mentre i turchi cingevano d'assedio Birgù e Senglea, trasportavano le loro artiglierie d'assedio in cima al monte Sciberras. Il più grande dei cannoni a disposizione di Mustafà era un mostro capace di scagliare blocchi di pietra di 73 chili, ma il parco degli assalitori poteva contare anche su dieci bocche da fuoco in grado di tempestare il forte con palle di 36 chilogrammi.

Il 22 maggio era partita dal Grand Harbor una veloce galea per chiedere aiuti alle varie Ispettorie dell' Ordine e soprattutto al viceré di Sicilia Garcia di Toledo, ma La Valette sapeva bene che per parecchi mesi, anche ammesso che spagnoli ed italiani si risolvessero ad inviare soccorsi, doveva contare solo sulle sue esigue forze. Il 24 infatti cominciò il bombardamento del forte, ed il Gran Maestro contava solo sulla sua resistenza ad oltranza per tenere impegnati i turchi, rafforzare le sue difese, e dar tempo agli eventuali rinforzi di sbarcare. Durante le notti continuava ad inviare nuovi contingenti di truppe a Sant'Elmo, mentre la Cavalleria dell'Ordine, concentrata a Mdina, non cessava di attaccare con improvvise sortite le squadre di portatori incaricati di rifornire da Marsascirocco gli assedianti del forte. D'altro canto era tale l'entusiasmo dei difensori che alle prime luci dell'alba del 1° giugno un gruppo di essi uscì dalle mura e fece strage dei turchi conquistando la trincea avanzata del nemico. Fu in realtà una vittoria puramente morale, poiché gli ottomani fecero subito avanzare i giannizzeri che rigettarono i cristiani dentro le mura e conquistarono persino un tratto della difesa. Lo scoramento dei cristiani fu ancor più grande il giorno seguente perché, se da una settimana non si avevano notizie dei Cavalieri che erano partiti in cerca di soccorsi alla rocca assediata, consistenti aiuti erano giunti invece ai turchi.

Il 2 mattina sbarcava infatti a Malta il terribile corsaro Dragut Rais, detto "la spada sguainata dell'Islam" con quarantacinque navi, duemilacinquecento uomini e decine di cannoni (7). Dragut era il terzo vegliardo - dopo Suliman e La Valette - di quella gigantesca battaglia; contava allora ottant'anni, ma aveva ancora la gagliardia e la prontezza di riflessi di un giovane. Innanzitutto convinse Pialì a bloccare l'isola dal nord con la flotta per intercettare eventuali spedizioni cristiane in aiuto dei Cavalieri, secondariamente fece piazzare una potente batteria sulla punta Tigné, sulla parte settentrionale della baia, e cominciò a bombardare Sant'Elmo dal lato nord.

Con l'apporto degli oltre cinquanta nuovi cannoni, colubrine e basilischi (8) di Dragut la situazione dei difensori di Sant'Elmo si fece ancora più disperata, senza che dai vicini forti di Sant'Angelo e San Michele potessero arrivare degli aiuti significati vi. All'alba del 3 giugno i giannizzeri colsero addormentata la piccola guarnigione del rivellino (9) del forte e la massacrarono, occupando così una posizione strategica vitale senza che i Cavalieri avessero forze sufficienti per riconquistarla. Al contrario furono gli stessi giannizzeri a precipitarsi lungo la stretta passerella che collegava il rivellino al forte per penetrare attraverso la saracinesca lasciata incautamente aperta. I difensori li arrestarono fulminandoli con le armi da fuoco, ma gli attaccanti cominciarono a sistemare anche le scale e ad arrampicarsi lungo le mura. Fanti e Cavalieri dell'Ordine fecero allora ricorso all'estrema risorsa del fuoco greco (10)). Vi erano tre sistemi per usarlo: gettare dall'alto dei contenitori simili a rudimentali bombe a mano muniti di miccia; soffiarlo con violenza attraverso apposite "trombe" che eruttavano fiamme lunghe oltre dieci metri, o immergere nel composto cerchi di legno cui veniva dato fuoco per poi farli rotolare dalle mura sugli attaccanti. I difensori li usarono tutti e tre, e sui giannizzeri, avvolti da lunghe vesti bianche di tela, il fuoco greco ebbe un effetto devastante. A mezzogiorno, quando l'assalto fu sospeso, nei fossati di Sant'Elmo giacevano i cadaveri carbonizzati di 2.500 giannizzeri e l'intero forte appariva come annerito e combusto dalle fiamme. Durante la notte, pazientemente, i turchi presero a riempire il fossato per èonsentire un attacco in massa, ed i lavori furono terminati per i17, quando le truppe scelte del Sultano andarono nuovamente all'assalto. La battaglia, cruentissima, si prolungò per tutta la giornata, ma a sera gli ottomani dovettero ritirarsi con gravissime perdite dovute, ancora una volta, al terribile fuoco greco.

Il giorno seguente vide un nuovo attacco che infuriò per sei ore e si concluse con un nuovo smacco per l'Islam, ma ormai la situazione dei difensori era pressoché insostenibile.

La soluzione più prudente per il Gran Maestro sarebbe stata quella di traghettare a Birgù e Sengleai pochi sopravvissuti e lasciare che i musulmani occupassero pure le rovine diroccate dei forte, ma La Valette concepiva un ragionamento del tutto diverso. I Cavalieri dell'Ordine facevano voto di dare la loro vita per la cristianità e dunque la guarnigione di Sant'Elmo era sacrificabile senza alcuno scrupolo morale.

Fin quando i turchi si fossero dissanguati negli assalti suicidi al forte, e avessero tenute impegnate le loro batterie nel suo bombardamento, Birgù, Senglea e Mdina sarebbero state sicure. Ciò avrebbe permesso di prolungare la resistenza di Malta sino a quando la Spagna si fosse decisa ad inviare rinforzi. La Valette conosceva bene la macchinosità e l'estrema lentezza politica delle decisioni spagnole. Il Viceré di Sicilia non poteva prendere alcuna autonoma iniziativa senza il permesso di Filippo II, e Filippo II, chiuso nel suo Escorial, era soprannominato El rey prudente (11). Nonostante che il messaggio regio inviato all’appena eletto Pio V nel 1566 assicurasse che "...prima di sopportare la più piccola cosa che possa recare pregiudizio alla religione e al servizio di Dio, io perderei tutti i miei stati, perderei anche cento vite se le avessi..." la politica di Filippo II nei mesi dell'assedio era distratta da ben altri impellenti obblighi. Nelle Fiandre si manifestavano i primi sintomi di fronda; in Francia c'era da seguire con particolare attenzione la guerra tra cattolici e ugonotti; bisognava non perdere di vista la lotta tra i presbiteriani e la cattolica Maria Stuart in Scozia; l'Inghilterra di Elisabetta I cominciava ad intercettare il traffico spagnolo con le Americhe e la tensione diplomatica si faceva sempre più acuta dopo la scomparsa della real consorte Maria Tudor nel 1558; infine in Spagna si doveva preparare la persecuzione contro eretici, moriscos e maranos, che in effetti si sarebbe scatenata con gli autos da Fé del 1566. Ma il Re doveva occuparsi anche delle colonie nel Continente Nuovo, delle finanze in rosso, della situazione in Italia e di mille altri problemi. Né Pio IV, l'anziano Papa Angelo Giovanni Medici destinato a morire alla fine del 1565, né la Toscana né la Repubblica Veneta si sarebbero mosse in soccorso di Malta senza l' appoggio spagnolo, ma quale grado di importanza avrebbe dato all'assedio di Malta l'indaffaratissimo Rey prudente? Per tutte queste ragioni occorreva guadagnar tempo, ed il sistema più economico era che San 'Elmo resistesse anche a costo del sacrificio di tutti gli occupanti. La situazione era tanto disperata che uno dei più nobili cavalieri che difendevano il forte richiese personalmente l'evacuazione della guarnigione.

Alla risposta negativa del Gran Maestro, la notte successiva approdò a Birgù un altro confratello, l'italiano Vitellino Vitelleschi con una lettera firmata da cinquanta giovani cavalieri del forte in cui si richiedeva il permesso di uscire dalle difese e di trovare morte onorevole in campo aperto, piuttosto che soccombere nell'orrore dell'assedio. Di fronte a tale atto di disperazione La Valette compì il miracolo ed inviò un messaggio in cui si diceva alla guarnigione di lasciare il posto, perché sarebbe stata sostituita con uomini più fidati e fratelli più coraggiosi. Era il 10 giugno ed i sentori di ammutinamento furono immediatamente fugati. La notte stessa ebbe luogo il primo attacco notturno dei turchi, stavolta anch'essi armati di trombe per il fuoco greco, e fu tale l'orrore della battaglia che i Cavalieri, per combattere e rinfrescarsi tra le fiamme infernali che avvolgevano i due schieramenti, si facevano inzuppare le vesti e le armature di acqua marina. All'alba altri 1.500 turchi giacevano trafitti e carbonizzati negli spalti e nel fossato di Sant'Elmo. Il 16 del mese fu sferrato un nuovo attacco, appoggiato dai cannoni della flotta che si era ancorata davanti al forte, e da tutte le batterie del Tigné e del monte Sciaberras. Per primi andarono all' assalto gli iayalari, corpi speciali che ricavavano il loro fanatismo suicida dall'hashish fumato in grande quantità prima dell'azione. Per la seconda ondata Mustafà scelse i dervisci, e mandò questi religiosi a morte certa nella speranza che la loro furia feroce potesse indebolire tanto le difese che i giannizzeri avrebbero avuto ragione degli ostinati Cavalieri. Fu però tutto inutile, e Sant'Elmo resistette al prezzo di 150 caduti e diverse centinaia di feriti tra i cristiani. La meravigliosa ostinazione con cui i Cavalieri ed i fanti rigettavano dalle mura tante migliaia di attaccanti era sostenuta senza dubbio dai continui contingenti di uomini che nottetempo alimentarono la guarnigione per tutto il mese di giugno. Dopo l'attacco del 16 La Valette capì tuttavia che l'agonia del forte era cominciata, e da allora in poi vietò anche ai volontari di trasferirsi a S. Elmo.

Anche i cannoni di Sant'Angelo avevano dato un valido aiuto ai difensori, aprendo un nutrito fuoco d'infilata contro le masse dei turchi in avvicinamento alle fortificazioni. Il loro intervento fu però rintuzzato dalla rapida costruzione di un muro lungo tutta la penisola del monte Sciberras, che nascose agli artiglieri cristiani dell'altro lato del Grand Harbor i concentramenti di truppe, sino quasi al rivellino del forte.

Il 22 giugno ci fu un nuovo attacco di spahi, iayalari e giannizzeri, ancora ricacciato dalle armi bianche dei cristiani, perché essi non avevano ormai più alcuna bocca da fuoco da piazzare sulle rovine sgretolate delle mura. All'alba del 23 fu la volta dell'assalto dell'intero esercito turco preceduto dalle solite truppe d'élite. Migliaia di uomini si riversarono contro gli ultimi cento sopravvissuti, e dopo quattro ore fu ammainata la croce bianca in campo rosso dei cristiani e issata al suo posto la mezzaluna turca. Quando la notizia della vittoria giunse a Dragut, che da alcuni giorni giaceva ferito nella sua tenda, la flotta musulmana aveva già gettato le ancore nella baia di Marsamuscetto, ed il vecchio rais poté spirare con l'orgoglio di una grande vittoria ottenuta. A Sant'Elmo erano morti in un mese d'assedio 1.500 cristiani, tra i quali 113 Cavalieri dell'Ordine, ma i turchi avevano perso più di 8.000 uomini.

Nove solo furono i sopravvissuti, poiché i corsari di Dragut li risparmiarono nella speranza di ottenerne un riscatto. Sui cadaveri dei difensori si scatenò la ferocia turca: furono tutti decapitati e alcune delle loro teste issate su delle picche perché i difensori di Sant'Angelo potessero scorgere il macabro spettacolo. Molti corpi furono poi legati a delle croci e fatti scivolare in acqua affinché la corrente li portasse sulle coste di Birgù e Senglea. La risposta dei cristiani fu ugualmente crudele. Il Gran Maestro diede ordine di decapitare tutti i prigionieri turchi in suo possesso, fece caricare i cannoni con le loro teste e le sparò nel campo ottomano.

In fin dei conti, La Valette poteva dirsi soddisfatto: all'inizio dell' assedio di Sant'Elmo aveva previsto che il forte avrebbe resistito tre o quattro giorni ed invece il nemico vi si era dissanguato per quasi un mese.

Arrivano i soccorsi

Il 5 1uglio giunsero a Malta, eludendo tra la nebbia la crociera dei musulmani, quattro galee al comando di Don Melchior de Robles con 42 Cavalieri, 25 gentiluomini volontari e 600 soldati, che si aggiunsero alla guarnigione di Birgù. Forte di questo aiuto e fidando in ulteriori consistenti rinforzi promessi, La Valette poté rifiutare sdegnosamente l'offerta di resa che gli era stata avanzata da Mustafà. Anche i turchi tuttavia avevano ricevuto un aiuto insperato dai corsari algerini Candelissa ed Hassem, genero di Dragut, che portavano con loro alcune migliaia di combattenti. La partita era ancora tutta da giocare e la battaglia era ancora ben lontana dalla fine.

Mustafà iniziò allora ciclopiche operazioni per l'assedio di Birgù e Senglea. Al corrente come era che questa seconda penisoletta era meno difesa dell'altra, pareva ovvio che dirigesse l'attacco verso il tallone vulnerabile dei cristiani. Ottanta navi furono infatti trascinate per via di terra da Marsamuscetto all'insenatura più meridionale del Grand Harbor per insidiare da sud il forte San Michele e Senglea; artiglierie furono montate sui resti di Sant'Elmo e numerose batterie d'assedio ridislocate contro le piazzaforti del Grand Harbor.

Per evitare uno sbarco lungo la costa meridionale di Senglea La Valette diede ordine a marinai ed operai maltesi di stendere una robusta barriera di pali aguzzi piantati nel fondale marino sottocosta. Lo stratagemma riuscì parzialmente quando, il 15 luglio, fu dato il segnale dell'assalto. Le galee di Candelissa erano destinate a sbarcare le loro truppe direttamente sulle spiagge di Senglea, mentre i corsari di Hassem dovevano investire il forte San Michele. L'attacco parve subito destinato al successo. Le galee si incastrarono sulla palizzata sottomarina, ma gli equipaggi si gettarono a nuoto e raggiunsero terra in brevissimo tempo; allo stesso tempo anche gli algerini di Hassem riuscirono a conquistare i bastioni del San Michele. Solo l'immediato arrivo di rinforzi da Birgù, che attraversarono il braccio di mare lungo un ponte di marche, salvò Senglea dalla disfatta. Il 7 agosto fu la volta di Birgù che dopo un terribile cannoneggiamento venne attaccata da terra sotto il comando di Pialì in persona. Gli ottomani riuscirono a conquistare uno dei due bastioni del terrapieno, quello difeso dalla Lingua di Castiglia, dopo averlo semidiroccato con le artiglierie. Dovette però essere grave la loro costernazione quando, sbucati oltre le difese, si trovarono di fronte un altro muro di cui non avevano notizia, e che La Valette aveva fatto costruire per precauzione. I turchi furono massacrati a centinaia dal fuoco della fucileria cristiana, presi in trappola fra il terrapieno e l'inaspettata barriera, e l'attacco, pur rimanendo feroce, segnò il passo.

La Valette tuttavia non aveva ragione di compiacersene perché Mustafà contemporaneamente assaliva San Michele e stava per averla vinta sulla guarnigione, senza che da Sant'Angelo, anch'esso sotto attacco, potessero partire degli aiuti. La situazione era disperata e Senglea sembrava ormai perduta quando accadde l'incredibile: Mustafà diede il segnale della ritirata ed abbandonò il forte praticamente già conquistato. L'unica spiegazione possibile era che fosse sbarcato un grosso contingente di rinforzi cristiani ed era ciò che credettero in un primo momento sia La Valette che Mustafà. L'accampamento turco di Marsa infatti era stato devastato mentre l'esercito dava l'assalto ai forti, i difensori erano stati tutti uccisi e le salmerie distrutte. La realtà era diversa: nessun soccorso era giunto dal mare per i cristiani. Semplicemente il governatore di Mdina, Mesquita, aveva inviato la cavalleria comandata da De Lugny ad attaccare il campo turco per salvare Senglea e Birgù. La mossa era riuscita perfettamente e le due piazzeforti poterono godere di quasi due settimane di tregua durante le quali dovettero sopportare solo il tiro sistematico delle batterie nemiche che ne demolivano le fortificazioni.

Galea dei cavalieri di Malta

Il 20 agosto però una mina finì di diroccare il bastione di Castiglia, mentre il San Michele fu ben presto in grave difficoltà: l'attacco turco, concentrato su Singlea e Sant'Angelo, mirava ad impedire che i due forti si scambiassero rinforzi per resistere. Di fronte al pericolo più imminente, quello del bastione di Castiglia, lo stesso La Valette dovette intervenire spada in pugno, nonostante i suoi settanta anni. I Cavalieri di Birgù lo seguirono formando un muro di petti e di corazze contro la marea dei turchi che già calava dalle rovine fumanti, e quando il Gran Maestro fu ferito dalle schegge di un'esplosione, i musulmani erano già in fuga e riprendeva il consueto bombardamento. Praticamente non era rimasto un solo edificio, una sola casa a Birgù ed a Senglea che non fosse diroccata, e la Sacra Infermeria traboccava di feriti e moribondi. Il fatto che molti Cavalieri dell'Ordine fossero anche esperti medici e chirurghi alleviava le sofferenze dei mutilati, e le rigide norme di igiene imposte preservavano i guerrieri ed i maltesi dalle epidemie che decimavano l'esercito turco, ma era chiaro a tutte le Lingue che l'assedio non potesse essere sostenuto ancora a lungo.

Il giorno seguente Mustafà e Pialì misero in campo una nuova arma contro Sant'Angelo ed i suoi bastioni che lo proteggevano dalla parte di terra: una gigantesca torre mobile che risultava refrattaria al fuoco greco perché ricoperta da pelli imbevute d'acqua. Accostata alle mura, la macchina permetteva agli archibugieri della sua piattaforma di bersagliare chiunque si muovesse in città. L'astuzia cristiana trovò una pronta risposta: praticata una galleria nel terrapieno in corrispondenza della torre vi fu piazzato un grosso cannone che sparò un' unica salva di palle incatenate e tranciò i tronchi alla base della macchina. Una seconda torre, accostata alle mura dieci giorni più tardi, fu conquistata con una rapida sortita di guastatori ed i cristiani la armarono addirittura con due colubrine usandola in sostituzione del diroccato bastione di Castiglia.

Si giunse così al mese di settembre tra la meraviglia dei turchi e degli stessi Cavalieri, che un assedio tanto feroce potesse essere rintuzzato per così lungo tempo.

La stagione inoltrata era però più propizia per i cristiani che per i musulmani. Mentre intorno a Birgù e Senglea la guerra si combatteva ormai con estenuanti operazioni di mine e contromine per abbattere e salvare le mura, Mustafà vide che le scorte di viveri, polvere e munizioni stavano esaurendosi. Se per metà settembre l'isola non fosse caduta l'esercito non avrebbe avuto neppure le razioni bastanti per il ritorno, e sarebbe stato costretto a svernare a Malta. Pialì, però, non voleva essere intrappolato nell'isola dal maltempo invernale e comunicò che la marina sarebbe partita alle prime avvisaglie della cattiva stagione. L'unica soluzione era rifornirsi di polvere e proiettili per un ultimo disperato assalto, e l'unico deposito di esplosivi a Malta era la capitale Mdina. Mustafà Pascià spostò il suo esercito in direzione della città, ma il comandante della piazzaforte accolse le truppe in avanzata con una nutrita scarica di artiglieria che fece desistere il generale dall'attacco. Mustafà dovette constatare che non erano più quelli i giorni in cui poteva ordinare a migliaia dei suoi uomini di farsi massacrare per la fede dell'Islam. Si trovava al comando di un esercito ormai disfatto moralmente e militarmente, su cui non poteva più fare affidamento alcuno.

L'arrivo dei tanto attesi rinforzi cristiani fu a questo punto pressoché ininfluente sulla conclusione della campagna. Il 25 agosto era partita da Messina una flotta di galee con a bordo 200 Cavalieri dell'Ordine e 1l.000 tra fanti spagnoli e soldati di ventura. Dopo un'attraversata resa difficile dal maltempo le squadre cristiane attraversarono lo stretto tra Gozo e Malta ed il 7 settembre sbarcarono il corpo di spedizione nella baia di Mellieha. La perturbazione d'altra parte fu una fortuna per le armi cristiane, in quanto tenne la flotta di Pialì all'ancora nell'insenatura di Marsamuscetto e le impedì di avvistare ed intercettare i soccorsi. A quella notizia Mustafà diede immediato ordine di reimbarco alle sue truppe ed all'alba dell'8 settembre (12) i superstiti di Sant'Angelo e San Michele videro gli accampamenti dei turchi deserti. Al Cavaliere Mathurin d'Au1x de Lescout fu affidato l'incarico di recarsi immediatamente a Sant'Elmo e così, mentre i confratelli innalzavano il Te Deum per la vittoria, sulle rovine del forte, che custodivano i corpi sepolti di tanti eroici difensori, tornò a sventolare la Croce dell'Ordine.

I Te Deum erano però ancora prematuri: ingannato sulla reale consistenza del Grande soccorso (13), che credeva molto maggiore, e timoroso dell'ira del Sultano, Mustafà diede ordine alla flotta di fermarsi nella baia di San Paolo, appena sotto Mellieha, per tentare una puntata verso Mdina. Nelle colline intorno alla città si erano concentrati infatti gli 1l.000 cristiani agli ordini di Ascanio de la Corna. I turchi sbarcati erano 9.000, completamente demoralizzati e demotivati. Di fronte all'attacco concentrico del corpo di spedizione, dei Cavalieri e dei difensori della città, essi si sbandarono quasi senza combattere e si diedero ad una fuga disordinata in direzione di San Paolo. Mustafà Pascià con una retroguardia di giannizzeri tentò di arginare l'irruenza dei cristiani per consentire al grosso delle truppe di imbarcarsi sulle scialuppe e mettersi in salvo sulle navi, ma alla fine del furioso combattimento la battigia, le spiagge ed il mare erano ricoperti di cadaveri turchi e di imbarcazioni distrutte. Era la sera dell’11 settembre 1565. Due giorni dopo la flotta del Sultano avrebbe abbandonato per sempre le tragiche acque di Malta.

Dietro di sé i turchi lasciavano la desolazione: gli abitati di Senglea e Birgù erano rasi al suolo; 250 Cavalieri dell'Ordine avevano perso la vita nelle furiose battaglie dell'estate, e dei circa 10.000 difensori originari ne erano sopravvissuti 600, la maggior parte feriti. 30.000 turchi non tornarono a Costantinopoli (14).

La cristianità, così restia ed avara nell'inviare soccorsi, fu almeno prodiga di riconoscimenti verso quel pugno di uomini che l'avevano salvata dal pericolo ottomano. A La Valette fu offerto da Pio IV il cappello cardinalizio, che egli rifiutò. Accettò invece il dono di Filippo II, un pugnale ed una spada dall' elsa d'oro sulla cui lama era incisa la scritta Plus quam valor Valette Valet (15). Senglea (16) fu insignita del titolo ufficiale di Città Invicta e Birgù fu ribattezzata Vittoriosa.

I1 28 marzo 1568 il Gran Maestro La Valette moriva e le sue spoglie sono tuttora conservate nella Concattedrale di San Giovanni a La Valletta. Il suo lontano successore Ferdinand Von Hompesch, Gran Maestro nel 1798, non seppe difendere altrettanto arditamente Malta dallo sbarco dei francesi, così i Cavalieri ripresero il loro peregrinare che si sarebbe concluso sul Colle A ventino di Roma, dove ancora oggi ha sede il Sovrano Militare Ordine di Malta.

Note
(1) Dopo il distacco della Chiesa Anglicana da Roma Enrico VllI aveva sciolto la Lingua d'Inghilterra e nel 1565 il Paese era rappresentato da un unico cavaliere
(2) "Magnifico" è il titolo che gli diedero gli europei. Presso gli ottomani era più noto come il "Legislatore" per l'impegno con cui affrontò l'organizzazione dello Stato
(3) Nel 1529 l'esercito turco giunse ad assediare Vienna senza esito
(4) La caduta di Rodi fu una vera sventura per i cristiani poiché consegnò a Suliman l'intero Mediterraneo. Non più contrastato dalle galee degli Ospitalieri, Suliman conquistò Tunisi nel 1534 e batté la flotta della Lega (tra Papato, Impero e Venezia) alla battaglia della Prevesa, in Albania (1538)
(5) Matteo, III, 28
(6) "Giannizzeri" è la corruzione delle parole turche yeni çeri, "soldato giovane". Nessun guerriero di questa milizia era turco, ma tutti erano figli di cristiani sudditi di Costantinopoli. Ogni cinque anni degli ispettori appositi esaminavano tutti i bambini che avessero compiuto i sette anni e conducevano i migliori nella capitale, dove subivano un addestramento durissimo. I Giannizzeri non potevano sposarsi e tutta la loro vita era improntata alla disciplina ed alla volontà fanatica di vincere o morire sul campo
(7) Dragut conosceva l'isola molto meglio di Pialì e Mustafà: nel 1551 ne aveva studiato attentamente le coste prima di attraversare il Canale di Sicilia e nel 1544 aveva organizzato uno sbarco, poi fallito, nell'isoletta di Gozo, che fa parte dell'arcipelago maltese
(8) I "basilischi" erano bocche da fuoco particolarmente potenti entrate in uso nel XV secolo. Il loro nome derivava dal greco basiliskòs, "reuccio"
(9) Il "rivellino" era un elemento in muratura che nell'arte delle fortificazioni quattrocentesca era eretto dinanzi alle difese dei forti per ripararle dai proiettili nemici
(10) Miscela di salnitro, zolfo, pece, sale ammoniacale, resina e trementina
(11) Un altro epiteto poco rispettoso di cui era gratificato Filippo II era quello di Rey papelero per la sua mania di consultare con estrema minuziosità e pedanteria tutta la sterminata mole dei documenti del suo regno. Da ciò derivava l'esasperante lentezza delle sue decisioni
(12) Ancor oggi 1'8 settembre è festa nazionale a Malta
(13) Con questo nome viene ricordata la seconda spedizione partita dalla Sicilia
(14) Suliman, contrariamente alle aspettative, perdonò Mustafà e Pialì e si ripropose di tentare una seconda spedizione contro Malta, alla quale voleva partecipare personalmente. Morì però due anni dopo durante un'ennesima offensiva in terra d'Ungheria
(15) La spada è oggi conservata nella Biblioteca Nazionale di Parigi, ed il pugnale nella Galleria di Apollo al Louvre. Ovviamente avevano fatto parte del bottino di guerra del generale Napoleone
(16) Senglea prendeva il nome da Claude de la Sengle, Gran Maestro dell'Ordine di San Giovanni prima di La Valette (1553-1557)
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